mercoledì 24 dicembre 2014

IL NATALE DEL 1979 e IL MIO PRIMO DISEGNO PER L'EDITRICE LA STAMPA






Maria Giulia Alemanno: Natale
  Tavola per Stampa Sera. 
Inchiostro di china e tempera su carta, 
dicembre 1979

Ripenso al 24 dicembre del 1979 come ad uno dei giorni più emozionanti della mia vita. Avevo da poco iniziato a collaborare con STAMPA SERA quando Vittoria Sincero, fantastica  maestra di giornalismo, mi disse, senza tanti preamboli com’era  nel suo stile, che avrei dovuto pensare ad un disegno per il Natale. Il tempo era breve, i miei timori enormi. 
In epoca di pieno consumismo recuperai dunque i ricordi della mia infanzia, l’atmosfera d’attesa nella casa di Crescentino, la gioia nel ricevere i doni. Piccoli doni, in verità: una bambola di pezza per me, una palla per mio fratello,  qualche frutto per entrambi. 


La neve scendeva sulla Favorita, la cascina oltre la strada mentre due figure, non mio padre, non mia madre, piuttosto due genitori simbolici in abiti contadini, osservavano con gioia la tranquilla felicità dei loro bambini.



Vittoria Sincero non mi aveva voluto anticipare  che il disegno sarebbe comparso sulla pagina della cultura della vigilia di Natale, una pagina importante dove il mio piccolo lavoro avrebbe avuto un posto di grande rilievo circondato dagli scritti di firme prestigiose: Ennio Caretto, Paolo Patruno, Mario Ciriello, Lidia Ravera. E Francesco Rosso, vercellese come me, esperto delle cose del mondo e della risaia, a cui aveva dedicato pagine memorabili. Non potevo dunque sapere, e questa fu la sorpresa e l’emozione, che le sue parole ed il mio disegno si sarebbero armonizzati a meraviglia, perché ci univa,  oltre all’ amore   per la   stessa terra, la nostalgia condivisa per i Gesù Bambini di zucchero di Confienza e per i mandarini, piccoli preziosissimi doni. Ancor oggi, non rinuncio a mettere  le bucce sulla stufa in forma di spirale. Ed il profumo mi riporta a quelle feste d’altri tempi che Francesco Rosso descrisse così bene e che qui,  aspettando la mezzanotte, mi piace condividere.


Quelle feste d’altri tempi
Gesù Bambino poco consumista

di Francesco Rosso

«Un Natale d’altri tempi, mi domandano, com’era?». Senza esitare, rispondo: «Bellissimo». Seguono i commenti, se era più bello, entusiasmante, felice dei Natali odierni, e qui incomincia l’imbarazzo, perché noi adulti scriviamo di una festa riservata, almeno così dovrebbe essere, esclusivamente ai bambini. Noi tentiamo di giocare ancora al Natale scambiandoci doni ogni anno più deludenti anche se costosi: nulla più ci sorprende ed appaga, apriamo il pacchetto e subito distogliamo gli occhi. Massimo interesse, valutare la possibilità di passarlo a qualcuno il Natale prossimo. E tutto questo perché non crediamo più nel sottile gioco dell’immaginazione che invece sorregge i bambini, i quali credono ancora in tante cose nonostante gli intellettualismi con cui tentiamo di rovinargli persino le favole psicanalizzando Alice, Sandokan, Cenerentola e Cappuccetto Rosso.
 




La capacità inventiva dei bambini crea il Natale, un po’ rivivendo la bella favola del Nascituro nella greppia (meglio dire mangiatoia?) tra bue ed asinello, un po’ per il mistero di quella notte con gli angeli che van cantando pace in terra, molto per i regali che la mattina dopo, svaniti gli angeli, gli squilli delle loro chiarine e le promesse di pace, si trovano scartando i pacchi, regali che possono anche essere poveri, cosucce, ma hanno il fascino del regalo di Natale. 


Sono convinto che i bambini non ricchi (oggi non si dice più bambini poveri, ciechi, muti eccetera, ma bambini non ricchi, non vedenti, non parlanti eccetera) provano gioia più intensa dinanzi ad un giocattolino di scarso valore di quanta ne provi il ricco ricevendo un dono lussuoso. Oppure, potrebbe essere il contrario: il bimbo ricco può entusiasmarsi per un giocattolino. essendo la dote precipua dei genitori ricchi la parsimonia, se non l’avarizia. La prodigalità lassista dei genitori non ricchi può privare i loro bimbi anche della semplice gioia natalizia perché gli hanno dato sempre e tutto già durante l’intero anno. Ecco un problema che non è facile risolvere senza l’intervento di un istituto di ricerca sociale con un’indagine sul Natale e sui bambini d’oggi.
 



Io posso raccontare dei Natali della mia infanzia, quando credevo ancora che Gesù Bambino prendesse le sembianze di papà e mamma che preparavano i regali. Erano già allora, entro i confini di più limitate possibilità economiche, Natali all’insegna del consumismo, perché i genitori, anche i non ricchi, qualche soldino lo spendevano per rendere lieta la festa, soprattutto per i bambini. Infatti, a quei tempi non usava scambiare i regali fra adulti, al massimo c’era l’invito all’amico a mangiare il cappone, o la fetta di panettone. L’ansia festiva incominciava nel pomeriggio della vigilia, quando in casa si preparavano gli agnolotti: ore di lavoro che sarebbero state divorate in pochi minuti. Ma la preparazione degli agnolotti, che si facevano esclusivamente in casa, era l’avvio alla festa, e tanta era l’ansia che saltavamo senza difficoltà la cena perché, pur avendo un appetito gagliardo, cenare la vigilia di Natale era vietato. Non per un digiuno rituale, o per economia: bisognava tenersi liberi per la cena di mezzanotte, dopo la messa della natività. Io sto raccontando il Natale di un paese, non ho esperienze infantili di un Natale cittadino. Ciò che ricordo fu una visita prenatalizia a Torino, una passeggiata sotto i portici di piazza Castello e la visione di quei padiglioni fra le «pilie» in cui era stata allestita una mostra favolosa: bambole su neve di bambagia pattinavano sul ghiaccio di uno specchio. Una visione di paradiso, che non ho più dimenticato. 




Ma non ho dimenticato nemmeno il Natale del mio paese, la vestizione serale per la messa di mezzanotte, lo scoprimento del presepe con un Gesù Bambino di gesso aureolato d’oro che tendeva le braccia, il gelo siderale nella chiesa poco rischiarata da ceri, l’alito rappreso in fumetti sulle bocche dei cantori che, accompagnati dall’organo ruggente, intonavano «Tu scendi dalle stelle…». Finita la messa, esalato l’ultimo rantolo dell’organo, si tornava a casa. Voci nella notte, grida di auguri, battere di zoccoli sul terreno indurito dal gelo, echi sempre più lontani, poi il silenzio compatto, nero, della notte. 



Il tepore del tinello, l’acqua che bolliva nel pentolone sulla stufa, il sugo dell’arrosto che sfriggolava nella teglia, l’ordine gioioso: «A tavola». Ed incominciava il breve, succulento cenone di mezzanotte, coi primi agnolotti ed il panettone. Il resto a domani. Sazi, stanchi per le emozioni, gli occhi grevi di sonno, resistevamo al torpore che ci invadeva. Loro, i grandi, pareva godessero di quella tortura rimandando di minuto in minuto la consegna dei regali. Non era molto, oggi troverei avvilenti quei doni, ma allora scalavo davvero le vette del paradiso. 


Che cosa c’era in quei pacchi? Come regalo durevole, una trottolina di legno da far vorticare col cordino per i maschi, una pupattola vestita di garza azzurra, o rosa, per le bimbe. Poi sei caramelle, sei cioccolatini, una manciata di "giapuneise", o arachidi, o mani come le chiamano dolcemente nei Caraibi (ma a quei tempi non lo sapevo) un po’ di marroni asciugati al forno e, somma squisitezza, tre mandarini. Oggi che sono in vetrina anche d’agosto, i mandarini non fanno più novità, frutto banalissimo da mensa sottosviluppata, ma a quei tempi remoti, il mandarino aveva preziosità quasi tropicali: oggi banane e manghi, ananas, noce di cajou sono in mostra ovunque, però non hanno la preziosa fragranza dei mandarini di un tempo. Non assaggio più mandarini da non so quanti anni, ma se mi accade di stare accanto a qualcuno che sbuccia uno dei piccoli frutti, l’aroma mi penetra attraverso il naso fino al cervello, solleticando i nervi della memoria, evocando il Natale dei miei anni giovani, bellissimi, felici, irripetibili. 
Che ci vuole a risentire le chiarine degli angeli, il loro canto di pace, gli echi sonori degli zoccoli sul terreno indurito dal gelo? Un mandarino, soltanto un piccolo, plebeo mandarino siciliano. Oppure, ma qui entriamo nel consumismo vero, i bambingesù di zucchero. Ho sentito come un pugno sul cuore l’altro ieri, entrando in una pasticceria. C’erano gnomi di zucchero, alcuni vestiti da frate, altri da San Giuseppe, altri da Madonna. Ma il bambingesù della mia infanzia, un rettangolino di zucchero ad imitare un lettino e, sopra, un po’ di zucchero colorato con la statuina che ricordava il povero presepe della povera chiesa del mio paese, non c’era. Dimenticato anche il bambingesù di zucchero toccato da leggère pennellate di colore azzurro. E’ giusto che così avvenga, oggi i bambini vogliono altri regali, robot mostruosi, missili e mitra e pistole micidiali. Scrivono ancora a Gesù Bambino la letterina chiedendo i doni e promettendo un anno intero di obbediente bontà? 
Non si può promettere bontà chiedendo in dono i rockets che irradiano mortale fuoco vero grazie alle pile. Non che allora fossimo tutti agnellini (quelli di zucchero ce li mangiavamo golosi) c’erano guerre, rivoluzioni, epidemie come ci sono oggi. Però, almeno a Natale, una letterina sapevamo scriverla ed avevamo immaginazione così tesa e viva che avremmo potuto giurare di aver sentito in quella notte le chiarine degli angeli e il loro canto «pace in terra…».




Anno 111 – Numero 339 STAMPA SERA Lunedì 24 Dicembre 1979. L’intera  pagina che lo ospita si può leggere sull’ Archivio storico della STAMPA consultabile in rete.




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